Il diritto di essere Nuba
Reportage dal cuore del Sudan

Alessandra Garusi

Lo scorso 21 dicembre, Kauda - un minuscolo villaggio sui monti Nuba - è stata bombardata. Questo reportage, in zone di una guerra dimenticata, ha avuto luogo subito dopo.

Sequestri di persona, arresti arbitrari, detenzioni senza processo in "case fantasma", ecc. La lista delle violazioni dei diritti umani è lunga. È un intero popolo, una cultura, che si sta cercando di violentare prima e di cancellare poi.

Per quale ragione è così difficile rompere il muro di silenzio che circonda il genocidio dei Nuba? Difficile dirlo. Missione Oggi stessa ne ha parlato ripetutamente. E continuerà a farlo.

La religione appartiene a Dio, non agli uomini, e ogni sviluppo va condiviso: solo così si arriverà ad una pace vera. (Mahmoud Jumula, capo islamico della regione di Tira) Gidel (Monti Nuba).

"La storia di questa guerra e della nostra resistenza è scritta sulle ginocchia, soprattutto su quelle delle donne". Amna Isiah è un responsabile della Union of women - una sorta di sindacato al femminile - che, sin dal 1987, si batte contro il governo fondamentalista islamico di Khartoum. Una lotta di retroguardia, questa delle donne Nuba, di cui non si è mai detto o scritto nulla. Mentre si è parlato - anche se sicuramente mai abbastanza - dell'Spla (Sudan people liberation army) che qui, su queste montagne, è stato finora guidato da un comandante d'eccezione. Il suo nome è Yusuf Kuwa (v. MO 4/1999). "Le ginocchia sbucciate, piene di lividi, raccontano di come dovevamo strisciare, nasconderci. Quasi ogni sera, verso le 22, uscivamo per portare del cibo ai nostri soldati - spesso mariti, fratelli - con i quali c'era un legame di sangue. Era pure nostro compito raccogliere i feriti, procurare la legna e l'acqua potabile; trasmettere preziosissime informazioni riguardo agli attacchi: quante bombe, quanti morti, quanti sacchi di sorgo bruciato (e, dunque, quanta probabilità di una carestia in arrivo), quanti capi di bestiame rubati? Resoconti da cui dipendeva, evidentemente, la sopravvivenza presente e futura del nostro popolo".

UN POPOLO DI RESISTENTI

I lettori MO lo ricorderanno, Yusuf, il governatore dei monti Nuba e leader del Consiglio nazionale di liberazione Splm (Movimento di liberazione del popolo sudanese). Fu proprio seguendo questo abile politico che, nell'84, i Nuba entrarono a far parte dell'Spla di John Garang e scesero quindi sul piede di guerra. Quale ultima chance. E cioè dopo che aveva tentato inutilmente di promuovere cambiamenti sociali e politici con mezzi nonviolenti. Dunque un uomo di pace, Yusuf, che è stato costretto dalle circostanze ad imbracciare un kalashnikov. Un figlio diretto del suo popolo che ha fatto della tolleranza, del coraggio, della dignità, della benevolenza unita ad una grande gioia di vivere, le proprie principali caratteristiche. Qui ci sono 52 lingue e tribù; gli adulti in genere ne parlano diverse, compreso l'arabo; e si muovono con disinvoltura nel labirinto delle differenze culturali. Prevalgono i musulmani, ma le comunità cristiane sono in forte espansione interna e non mancano gli animisti. Yusuf del resto è musulmano, sua moglie cristiana e cristiani sono pure i figli.

Che c'è di strano? Qui si sorprendono che ci si sorprenda. Qui il Natale, come la fine del Ramadan quest'anno caduta il 27 dicembre, si festeggia rigorosamente tutti assieme. "In primo luogo, ci sentiamo parte integrante del popolo Nuba", spiega Mahmoud Jumula, 60 anni, capo islamico della regione di Tira, "e solo secondariamente del popolo cristiano, musulmano o animista che sia". A questo proposito Peter Zakaria Kodi, pastore della Sudan Church of Christ a Kujur, aggiunge: "La religione non è forse, essenzialmente, una questione di relazioni fra persone? I Nuba erano qui, prima dell'arrivo delle religioni. E dunque nessuno vede l'altro come un diverso, perché innanzitutto lo vede come un Nuba".

Ma torniamo al mondo musulmano. La jihad, osservata dalle montagne, è qualcosa di assolutamente folle e incomprensibile. "Se il governo golpista di Omar al Bashir (che prese il potere nell'89 ed è ideologicamente controllato dal fanatico musulmano Hassan al Turabi, malgrado qualche recente screzio fra i due, ndr) dovesse lanciare ufficialmente - perché in realtà l'ha già fatto - la 'guerra santa', di sicuro qui non troverebbe al seguito", prosegue Mahmoud. Certo, i fondamentalisti di Khartoum guardano con disprezzo i musulmani Nuba. Li chiamano kufar (non credenti). E a dei kufar è lecito, anzi consigliabile, rubare il bestiame e sequestrare i figli.

LA BRUTTA NOTTE DI RASHIT

Rashit Adam, 15 anni, ha corso questo rischio nella notte fra il 30 e il 31 dicembre. È stato svegliato prima dal latrare dei cani, lontano. "Ciò è molto strano", deve aver pensato. Perché questi abbaiano solamente in presenza di sconosciuti. E su quelle colline, isolate dal mondo, di sconosciuti praticamente non c'è traccia. Poi è stata la volta dei vicini: le loro voci familiari sempre più forti, fino ad un tono di discussione accesa nel cuore della notte. Non c'è stato bisogno di altro. Rashit ha capito in un lampo. Là fuori, c'erano dei soldati di Khartoum, penetrati lì non si sa come. E volevano impossessarsi di alcuni capi di bestiame. O meglio, volevano che qualche ragazzino (perché sono questi che di solito se ne occupano durante il giorno, ndr) li conducesse ai recinti. Ma Kauda, il villaggio dove questi fatti sono avvenuti, è poverissimo. Di "veri" capi di bestiame, cioè di vacche - galline, conigli o altri animali più piccoli non contano - non ce ne sono. Così hanno replicato i vicini. E da lì è cominciata la furibonda discussione.

Nel frattempo, Rachit era scivolato sotto il suo angareb (tipico letto di legno e fibre vegetali intrecciate). È stato lì, trattenendo il respiro, col terrore di vedere entrare da un momento all'altro i soldati. Dei poveracci, che alla fine si sono accontentati di qualche paio di scarpe e di pantaloni usati. A Khartoum - è noto - non si può rientrare a mani vuote. Almeno questo. Poi è tornato il silenzio. È arrivata finalmente l'alba. A Rachit è andata dritta. Ma quanti altri ragazzini Nuba sono finiti invece nelle sgrinfie dei governativi? Ciò che riserva loro il destino, si sa: lo sradicamento, l'islamizzazione forzata nei cosiddetti peace camps (autentici campi di concentramento), e il ritorno sui monti Nuba per combattere la propria stessa gente. Un dramma - questo dei sequestri di stato - che coinvolgerebbe oltre 15mila minori.

OLTRE IL MURO DI SILENZIO

Sequestri di persona, ma anche arresti arbitrari, detenzioni senza processo in "case fantasma" (dove si pratica ogni genere di tortura), raccolti bruciati, campi disseminati di mine antiuomo e di bombe al plastico, ecc. La lista delle violazioni dei diritti umani è lunga. È un intero ambiente, un popolo, una cultura, che si sta cercando di violentare prima e di cancellare poi. Eppure tutto ciò sembra non fare notizia, non bucare i teleschermi. Missione Oggi stessa ha parlato di questo genocidio ripetutamente - 1/1998, 4/2000, 8/2000 - e, pur avendo suscitato nell'opinione pubblica una forte reazione, non è riuscita a rompere il muro di silenzio che circonda questo angolo della terra. Per quale ragione? Difficile dirlo.

"Sta di fatto che, politicamente, la situazione sui monti Nuba è ad uno stallo pressoché totale", dice p. Renato Kizito Sesana, missionario comboniano, giornalista e presidente di Amani (in kiswahili significa "pace"). Fra i progetti di quest'associazione laica, c'è appunto quello di assicurare l'invio di aiuti - cioè sale, medicinali, attrezzi da lavoro, materiale scolastico, vestiti e sementi - alla popolazione civile. Questi voli umanitari avvengono però nel deserto generale. "Due anni fa, con la visita dei rappresentati delle Nazioni Unite (giugno e settembre '99) e con la pubblicazione di un grosso rapporto, si sperava di poter instaurare un dialogo fra i leader dei Nuba, il Consiglio di sicurezza e il governo di Khartoum, così da rendere finalmente possibile l'accesso dei voli umanitari all'area; e di poter facilitare il rapporto con l'intero Spla, segnalando posizioni più possibiliste da parte di Khartoum", aggiunge p. Kizito. "Invece, i risultati concreti sono insignificanti".

Dal punto di vista militare, la tensione è sempre altissima. Il 2000 è stato punteggiato di bombardamenti, che molto spesso non vengono nemmeno riportati dalle agenzie di stampa. Fatta eccezione per quello dell'8 febbraio, a Kauda Fouk, "solamente" perché ha lasciato sul terreno 14 alunni e la loro maestra. L'ultimo, in ordine di tempo, è stato quello del 21 dicembre, fortunatamente senza morti e feriti, ma con la chiara intenzione di seminare il panico fra i civili. Bombardamenti che segnalano, da parte di Khartoum, la volontà di non cambiare direzione per quanto riguarda la "questione Nuba".

L'ETERNO SOGNO DELLA PACE

Il fatto che non si deponga il kalashnikov, non significa che non si stia contemporaneamente lavorando per la pace. E molto. Lo fanno le donne con l'associazione Sudanese women's voice for peace (Swvp), che opera sia qui che da Nairobi. "C'è un prima e un dopo la 'rivoluzione' per le donne Nuba", spiega Amna Isiah, "dal 1987, cioè, il nostro ruolo si è esteso dal focolare all'intera società: se consideriamo questa come una grande famiglia, allora anche politicamente la donna può essere una madre, una leader perfetta". Fra donne e uomini sui monti Nuba c'è dunque una sostanziale parità, anche se dal punto scolastico le donne restano ancora un passo indietro. Ma è solo questione di tempo.

Dalle donne ai leader religiosi: c'è un chiesa cattolica in forte crescita, non tanto per l'impegno dei preti quanto per quello dei laici quando qui di preti non si vedeva nemmeno l'ombra. E ci sono capi musulmani che, nonostante le provocazioni di Khartoum, si ostinano a praticare la tolleranza. Sono state bruciate alcune delle loro moschee; i fautori della jihad hanno addirittura scritto sui muri anneriti: "Se volete essere dei veri musulmani, andate nelle zone governative". Ma loro ribattono, per bocca di uno di loro, Mahmoud Jumula: "La religione appartiene a Dio, non agli uomini. E ogni sviluppo va condiviso: solo questo potrà portare alla pace".

Yusuf Kuwa - prima maestro, poi candidato al Parlamento per un'intera legislatura, infine combattente - non è dunque solo. Ma il tempo stringe: quest'uomo ha metastasi ossee ormai diffuse, in seguito ad un cancro alla prostata trascurato, deve fare un ennesimo ciclo di terapie a Londra, in Gran Bretagna. Prima però c'è un altro volo previsto: quello verso i monti Nuba, assieme al comandante 52enne Abdul Aziz Adam Al-Hill, originario del Darfur (vicino al Ciad e alla Libia), ma Nuba d'adozione, al quale darà il testimone. La lotta continua.

ALESSANDRA GARUSI

(missioneoggi@saveriani.bs.it)